Oggi non si pone più la domanda se la società sia di fronte a un cambiamento radicale: ci siamo già dentro. L’unica domanda è come questo cambiamento avverrà: by design or by disaster?
(Wackernagel 2014).
Se vogliamo gestire noi il cambiamento invece di subirlo, allora optiamo per una trasformazione verso la sostenibilità. Essa è sia una necessità che un’opportunità.
… perché riguarda scenari di crisi capaci di minare la convivenza pacifica nella società, nel peggiore dei casi di mettere in pericolo l’esistenza dell’uomo e della natura sulla Terra.
Non solo la crisi climatica e la distruzione della biodiversità fanno oggi parte di una »crisi multipla« (Ulrich Brand 2009), ma anche la crisi finanziaria, quella della democrazia, la polarizzazione sociale così come la corsa agli armamenti.
Negli ultimi 5000 anni il collasso di civiltà è stato causato principalmente da due fattori: le forti disuguaglianze sociali (nella distribuzione di potere, ricchezza, risorse) e il rimanere fermi su schemi mentali ideologici (Diamond 2005; Motesharrei/Rivas et al. 2014). Questo potrebbe valere anche per le crisi attuali.
Per la resilienza di una società, la diversità culturale è tanto importante quanto la
biodiversità per gli ecosistemi (UNESCO 2001). Diversità culturale vuol dire disponibilità di spazi per le alternative. Una »economia plurale« è molto più sostenibile di una »monocultura neoliberale«.
… perchè la sostenibilità riguarda la questione della »vita buona«. Di essa si occuparono già gli antichi greci, ad esempio Platone e Aristotele. Oggi il benessere viene ridotto alla »crescita economica« che però corrisponde a uno sviluppo basato sull’esternalizzazione di costi ecologici, economici e sociali che non compaiono nel bilancio generale (Lessenich 2017). La crescita di una parte del mondo implica la recessione continua di un’altra parte.
Una vita non può essere »buona« se va a discapito degli altri, generazioni future comprese. Mentre lo sviluppo attuale prescrive un modello di benessere (il consumo di massa), con sostenibilità si intende molto più l’emancipazione che non la rinuncia. Da una parte la »vita buona« si orienta all’interesse comune e ciò presuppone una continua contrattazione. Persino in un vicinato ci sono interessi e idee molto diverse quando si tratta di definire l’interesse comune. Dall’altra parte la »vita buona« non dev’essere necessariamente inventata, possiamo anche imparare da altre culture e sottoculture. Nell’America latina il Buen vivir è il modo in cui i popoli indigeni delle Ande vivono da secoli nelle foreste tropicali, preferendo l’equilibrio con la natura esteriore e interiore alla crescita, la solidarietà alla concorrenza (Acosta 2016).
Dentro la nostra società la »vita buona« viene già sperimentata e vissuta nelle nicchie: nel giardinaggio urbano, nell’economia circolare delle regioni oppure in città come Copenaghen che sono a misura d’uomo e non d’auto (Gehl 2010).
Nella trasformazione verso la sostenibilità il processo è l’obiettivo stesso.
Il modo di governare la società in modo centralistico, dall’alto verso il basso, costituisce parte del problema e non può essere la soluzione. La trasformazione può anche cominciare di fronte alla porta di casa e svilupparsi dal locale verso il globale. Ogni strada e ogni quartiere, ogni università e ogni comune possono essere trasformati in un bene condiviso (common) da gestire insieme, ad esempio per realizzare una svolta nella mobilità o una politica abitativa più solidale.
La trasformazione verso la sostenibilità presuppone un cambiamento sia del modo di relazionarsi all’interno della società sia del rapporto fra cittadini e istituzioni. Come può essere promossa la cooperazione fra attori sociali differenti? Come è possibile sostituire il patto fra Stato e Mercato (public-private partnership) con quello fra Stato e società civile (public-citizen partnership)?
Non esiste una strada maestra per la trasformazione, anche perché ogni individuo, ogni organizzazione e ogni città ha una propria specificità (cfr. WBGU 2016). La trasformazione deve essere intesa e impostata come un processo di apprendimento individuale e collettivo. A esso possono contribuire laboratori sociali e »spazi di gioco« come la »Giornata del buon vivere« (Tag des guten Lebens), da me ideata a Colonia nel 2011. I laboratori sociali hanno bisogno di una moderazione esterna e di un accompagnamento scientifico, anche per essere documentati.
Le persone non fanno sempre quello che sanno (Leggewie/Welzer 2009).
In una pubblica amministrazione si preferisce spesso attenersi all’ordine stabilito e rispettare le gerarchie piuttosto che seguire strade nuove. Ad attori sociali educati alla concorrenza e alla massimizzazione dell’utile personale, la condivisione e la cooperazione risultano molto difficili. Se le crisi sociali hanno anche cause culturali, allora servirà un cambiamento culturale per superarle. Le »culture della sostenibilità« sono caratterizzate da un modo di »pensare in relazione« (Vester 2002) piuttosto che »in separazione«.